È morto, ma fra le braccia di una mamma. Il piccolo Mario se ne è andato ancora prima di compiere tre anni: malato e abbandonato alla nascita, era stato adottato da un’infermiera del reparto dove era ricoverato, Nadia Ferrari. Una donna coraggiosa e forte, che ieri ha ricevuto il premio della Bontà Sant’Antonio, all’auditorium del Centro culturale San Gaetano di Padova, per il suo «gesto d’amore disinteressato e veramente materno».
Mario era nato a Siena, con una grave disabilità: i suoi genitori biologici avevano deciso di lasciarlo in ospedale. Piccolissimo, ha dovuto subire tanti interventi neurochirurgici, poi, a sei mesi, è stato trasferito, per la prosecuzione delle cure, nel reparto di patologia neonatale dell’ospedale di Grosseto. Era in condizioni terribili.
Nadia, in servizio come infermiera, lo ha visto per la prima volta coperto da tubicini e drenaggi. Ed è scattato subito qualcosa. Il bimbo ha passato i primi due anni della sua vita fra le cure del personale dell’ospedale e di un gruppo di volontari.
Intanto l’infermiera, sempre più legata a quel piccolo, anche quando non era di turno si fermava in ospedale, e quando tornava a casa continuava a pensare a lui, a come farlo giocare, fargli fare la ginnastica, farlo mangiare. Voleva adottarlo, ma pensava di non poterlo fare. Fino a quando un’assistente sociale, a cui aveva rivelato il suo pensiero, le rispose: «Allora perché non lo fai?».
Mario era nato a Siena, con una grave disabilità: i suoi genitori biologici avevano deciso di lasciarlo in ospedale. Piccolissimo, ha dovuto subire tanti interventi neurochirurgici, poi, a sei mesi, è stato trasferito, per la prosecuzione delle cure, nel reparto di patologia neonatale dell’ospedale di Grosseto. Era in condizioni terribili.
Nadia, in servizio come infermiera, lo ha visto per la prima volta coperto da tubicini e drenaggi. Ed è scattato subito qualcosa. Il bimbo ha passato i primi due anni della sua vita fra le cure del personale dell’ospedale e di un gruppo di volontari.
Intanto l’infermiera, sempre più legata a quel piccolo, anche quando non era di turno si fermava in ospedale, e quando tornava a casa continuava a pensare a lui, a come farlo giocare, fargli fare la ginnastica, farlo mangiare. Voleva adottarlo, ma pensava di non poterlo fare. Fino a quando un’assistente sociale, a cui aveva rivelato il suo pensiero, le rispose: «Allora perché non lo fai?».
Nadia iniziò il percorso per la richiesta di affido: era agosto, e marzo Mario fu affidato all’infermiera. Che, per accudirlo meglio, chiese l’aspettativa: con la figlia Alessia, cercava di stimolare il piccolo e di aiutarlo a migliorare la sua condizione.
«Lo portarono al mare, in montagna, in piscina – fanno sapere dall’Arciconfraternita di sant'Antonio di Padova -, e i progressi furono immediati: cominciò a mangiare da solo, imparò a tenere sollevata la testa e a muoversi meglio. Insomma, dopo un anno e mezzo di vero calvario e vita chiuso in ospedale, il piccolo cominciò ad avere una vita quasi normale, in cui c’era spazio per ridere, fare versi e giocare e a giugno si fece una grande festa per il suo secondo compleanno».
Mario gratificava la mamma piangendo pochissimo, non facendo i capricci e regalandole grandi sorrisi. E a chi diceva a Nadia che non valeva la pena sacrificarsi per un bimbo che sarebbe morto, perché il distacco l’avrebbe fatta soffrire, lei rispondeva: «Lo so, soffrirò, ma lo amo e non voglio che sia solo. Preferisco soffrire per sempre per avere dato a mio figlio Mario l’amore incondizionato di una famiglia, anche per poco, piuttosto che non averlo mai accudito».
Lei era una mamma serena, che al suo piccolo voleva dare il meglio: aveva già messo in vendita la casa perché non c’era l’ascensore, e stava pensando di cambiare l’automobile. Mario se ne è andato prima, ma la sua mamma non lo dimentica: «Gli parlo in continuazione, anche se è dura non poterlo più accarezzare. Se c’è un paradiso, spero che stia correndo e giocando e di arrivarci anch’io un giorno così poi lì ci potremo organizzare meglio, che di tempo ce n’è un’eternità».
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